Il giallo delle foglie e la nebbia mi ricordano che siamo in ottobre, e l'autunno fuori segnala ammanchi di linfa e corrisponde, anche se su piani leggermente sfalsati, a quello dell'anima. Non c'è ghiaccio, ancora, su cui scivolare, solo un'aria densa e frigida a ingobbirmi e a uscir dal naso come un fumo freddo, possente, che sa di città di pianura, di campi, di smog cristallizzato nel bianco sporco e livido che ci rumina intorno.Solo qualche settimana fa camminavo in maglietta per le strade di Barcellona, Cadaques e Girona, determinata a non sentire, persa tra le guglie di un modernismo ribelle e ostentato, nei bassifondi di cui Carlo è stato giuda esperta e accompagnatore instancabile: il rientro, almeno, mi ha regalato un po' di finta e tarda estate, ritardando la fiamma azzurra della caldaia, accesa solo la settimana scorsa ma già a regime, se non altro a far sparire un po' di umidità dalle stanze di casa, ora più vuote, che si impolverano prima di aver tempo di sporcarsi davvero. E poi Lavorare Stanca, secondo Pavese e, a ruota, per tutti: una routine che fa girare la testa nel suo ovvio e ostinato succedersi, ma almeno vanga e smussa un po' la terra dura del momento, questo presente così simile a un aratro sul cemento, che non solca, stride, scalfisce inutilmente l'asfalto isolante che ci pavimenta, corazza e rende solidi, ma sordi, al brulicare che giace sotto.
giovedì 29 ottobre 2009
martedì 29 settembre 2009
giornata secca
di solitaria
immatura
tristezza in scatola.
la luce fioca
su una musica di lametta.
caldo irreale
per chi non lo vuole.
pensieri
raffreddati
singhiozzo
starnuto
anima malaticcia
da aspirina.
récherce
o scarto
di viti
allentate
precarie
posticce.
ermetica
svogliata
senza pensieri.
troppi frammenti
intorno.
luna storta
fuori e dentro,
nel cielo.
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o incolla alla meglio
come tanto bene
sai fare.
di solitaria
immatura
tristezza in scatola.
la luce fioca
su una musica di lametta.
caldo irreale
per chi non lo vuole.
pensieri
raffreddati
singhiozzo
starnuto
anima malaticcia
da aspirina.
récherce
o scarto
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allentate
precarie
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venerdì 25 settembre 2009
Atto Unico
Di nuovo, anche stasera: sola di fronte al computer, troppo asciutta per aver cose nuove da dire, come se avessi già parlato di tutto, in un banale venerdì in cui stanca e livida non riesco a decidermi ad uscire. Dieci anni fa scrivevo questo breve racconto, mi ricordo ancora di me seduta sul regionale per Venezia, con un libro di poesie di Rimbaud su cui ho scarabocchiato queste poche righe, ingenue, adolescenziali, feroci, mie.
Non gli pareva vero. Rappresentare se stesso, un lungo monologo, ciò che non era mai stato…Rappresentare sé diverso da sé, che idea! Che delizia! La monotonia della propria vita grigia e poi, tutt’a un tratto, l’ispirazione! La folla era l’unica salvezza; gli applausi e il delirio di una massa che lo avrebbe apprezzato proprio per ciò che non era: la finzione di emozioni mai provate per incapacità, l’enfasi di sentimenti ignoti per pigrizia. Non aspettava altro.
Che importava se i giorni prima non erano stati altro che una litania notturna d’orrori, e quelli futuri un guscio senz’ostrica, vuoti; quell’attimo solo sarebbe valso a riscattarli, in un unico, grande, glorioso momento di pace: la pace di chi, mentendo, non mira che a mentire, a sé per primo, trasformandosi così nell’essenza stessa della propria verità.
Avrebbe raccontato ad occhi e orecchie attenti ciò che mai aveva visto; li avrebbe commossi, e divertiti; avrebbe gridato, pianto e riso con loro, per loro, senz’altre comparse che la propria ombra nera sul palco inondato di luce.
Avrebbe raccontato ad occhi e orecchie attenti ciò che mai aveva visto; li avrebbe commossi, e divertiti; avrebbe gridato, pianto e riso con loro, per loro, senz’altre comparse che la propria ombra nera sul palco inondato di luce.
Già s’immaginava quell’attimo in cui il riflettore lo avrebbe trafitto, in cui lui, opalescente, avrebbe mostrato quel cuore d’un altro che neppur sapeva di avere. Sarebbe stato un individuo, finalmente anche lui con una parte da recitare, come gli altri, come tutti; con qualcosa da dire, storie finte da raccontare: epica di visioni banali o grandiosi nulla scintillanti, poco importava. Che stessero tutti lì, inchiodati sulle sedie attenti ad osservarlo, era questo, sì, che contava! Sarebbe stato davvero un individuo, unico di fronte a quella massa nera d’occhi, a quel multiforme polipo, tumore di cui ora non era altro che cellula integrante.
Sentiva pulsare nelle tempie una voglia quasi ferina. Non era un emozione, ma solo un insondabile istinto: la primaria necessità di esistere che, scontrandosi col vuoto riluce come una cometa, per poi inabissarsi anonima e monocroma senza ricordarsi più di ciò ch’è stata.
L’ispirazione gli affluiva a tratti, una teiera di sakè fumante i cui soli effluvi bastino a produrre ebbrezza e torpore. E lentamente lui la respirava, felice che quel giorno tardasse ad arrivare, pregustando ancora un po’ il momento in cui, dopo una vita sarebbe nato e, forse, stato vivo.
L’ispirazione gli affluiva a tratti, una teiera di sakè fumante i cui soli effluvi bastino a produrre ebbrezza e torpore. E lentamente lui la respirava, felice che quel giorno tardasse ad arrivare, pregustando ancora un po’ il momento in cui, dopo una vita sarebbe nato e, forse, stato vivo.
E il tempo, seppur lento, inesorabilmente giunse: ormai si sentiva forte, con passo svelto e la testa alta, lo sguardo fisso avanti a sé, sicuro attraversò la soglia che lo conduceva al palco. Sospinto da una forza maestosa ed unica il sipario cremisi si aprì, senza errori o sbavature.
Lui non voleva, non poteva crederci...
Quel silenzio scrosciò allora più violento di un applauso, prodotto da un' inesistente platea di rosse poltrone vuote. E allora pianse, Solo, Amaro, Nessuno, nel suo teatro immenso d’ombra e di vertigine.
martedì 22 settembre 2009
Specchio 2001
Ritrovo un po' nostalgicamente alcuni vecchi scritti...Nel 2001 scrivevo così, l'ho chiamato "Specchio", e mi accorgo che poco ci cambiano gli anni, gli eventi, il tempo, le cose.
Dev’essere proprio triste insoddisfazione quell’eco che si fa sentire così insistentemente di notte e di giorno, a tutte le ore, con una puntualità prevista e comunque sconcertante; è un “periodo di magra”, fatico molto a esprimermi: quando sto così condenso tutto, e anche sulla tastiera mi muovo a piccoli passi, a scatti. Gocce intense appese malamente ad una gruccia, restano lì e mi osservano come farebbe un vecchio cappotto dalla lunga storia…novellina, direbbe, che presunzione questo non sorridere mai, che infruttuosa questa circolare ricerca, che banale questa eterna voglia di fuggire. Lasciati indossare.
Sono fatta di troppe parti, persa in un labirinto di petali d’odore monocromo e fintamente consolatorio, a soppesare le lievi entità dell’esserci senza saper dove, senza uscita, un senso che somiglia da vicino a un giardino in piena sfioritura.
Lo specchio degli inganni, lo ha chiamato Mishima.
Inganno del non ritrovare ciò che si vuole, di non saper seguire quello che pare essere un fiume più pulito e più supremo, una spiritualità di ampia portata, di una tensione trascendente che sento mia man mano che i giorni si fanno solitari, gli obiettivi sfocati, le istantanee sovraesposte…e che non sento in alcuna quotidianità possibile.
Immagini montate ieri a far scoop mi hanno chiamata e risucchiata nel tubo catodico, mi hanno tolto il sonno e acceso scintille negli occhi, e baluginanti e dolorose due lacrime rigide sono scese a dir tutto: non c’è senso in questa società degli uomini, non c’è redenzione, né uscita programmabile. Non serve il grandangolo per guardare negli occhi lo specchio, per riflettere l’inganno perpetrato dal moto stesso del vivere, e mi chiamo responsabile, complice, vittima.
Cerco un posto per me, chi mi ricordi per un gesto gratis e mi sorrida con lo sguardo triste senza in fondo credermi: esiste un sentiero così?
Yukio Mishima, Lo specchio degli inganni:
Momento ineffabile quello in cui un’immagine emerge insensibilmente dalla sfera del sogno per entrare in quella della vita quotidiana. Astrazione divenuta realtà, poema che acquisisce concretezza fisica, oggetto tangibile attinto all’immaginario. Se un quid privo di senso, ancorché inquietante, in virtù di un processo purchessia è assimilato al cuore, nasce nel nostro intimo il desiderio di vederlo prender forma, onde questa entità viene chiamata vita.
Sono fatta di troppe parti, persa in un labirinto di petali d’odore monocromo e fintamente consolatorio, a soppesare le lievi entità dell’esserci senza saper dove, senza uscita, un senso che somiglia da vicino a un giardino in piena sfioritura.
Lo specchio degli inganni, lo ha chiamato Mishima.
Inganno del non ritrovare ciò che si vuole, di non saper seguire quello che pare essere un fiume più pulito e più supremo, una spiritualità di ampia portata, di una tensione trascendente che sento mia man mano che i giorni si fanno solitari, gli obiettivi sfocati, le istantanee sovraesposte…e che non sento in alcuna quotidianità possibile.
Immagini montate ieri a far scoop mi hanno chiamata e risucchiata nel tubo catodico, mi hanno tolto il sonno e acceso scintille negli occhi, e baluginanti e dolorose due lacrime rigide sono scese a dir tutto: non c’è senso in questa società degli uomini, non c’è redenzione, né uscita programmabile. Non serve il grandangolo per guardare negli occhi lo specchio, per riflettere l’inganno perpetrato dal moto stesso del vivere, e mi chiamo responsabile, complice, vittima.
Cerco un posto per me, chi mi ricordi per un gesto gratis e mi sorrida con lo sguardo triste senza in fondo credermi: esiste un sentiero così?
Yukio Mishima, Lo specchio degli inganni:
Momento ineffabile quello in cui un’immagine emerge insensibilmente dalla sfera del sogno per entrare in quella della vita quotidiana. Astrazione divenuta realtà, poema che acquisisce concretezza fisica, oggetto tangibile attinto all’immaginario. Se un quid privo di senso, ancorché inquietante, in virtù di un processo purchessia è assimilato al cuore, nasce nel nostro intimo il desiderio di vederlo prender forma, onde questa entità viene chiamata vita.
Foto: da internet, Mishima che ricorda tanto la copertina di "Storie di Ordinaria Follia". Forse proprio di questo stiamo parlando, e Bukowski, così diverso, urla in fondo le stesse cose, lo stesso delirio del mondo, la pochezza di noi poveri umani.
sabato 12 settembre 2009
Aurora Boreale
Ennesima giornata anonima, ma almeno ho recuperato qualche ora di sonno mattutina, in una breve ma necessaria mini-convalescenza da sabato pomeriggio. Comincia a farsi sentire una tale stanchezza di tutto, una gran "noia di vivere", come dice Battiato, che nemmeno questo settembre caldo e ventilato riesce a lenire.
A parte qualche uscita in compagnia, le giornate sono sempre quelle, scandite da lavoro e casa in un'altalena che si muove veloce ma con le corde allentate, pericolosa.
Oggi però ho visto i tetti dal balcone di Vanessa, e insieme abbiamo guardato le nuvole e giocato con Ale e i suoi pentolini di plastica riempiti di sabbia, che si trasformava magicamente ora in gelato al cioccolato, ora in minestrone per il tavolo quattro.
Lo scorso weekend sono stata bene, a parlare con Sara in treno e tra le calli di Venezia, e poi con Silvia, Morgan e Fabio in una nostalgica rimpatriata padovana, tra spritz e tachiflu dec; sono riuscita anche ad ammalarmi, e a guarire per forza di cose a far fronte al tanto lavoro, al poco tempo per me, ai troppi pensieri che mi popolano e stancano più di tutto.
Ogni giorno sogno per qualche minuto il Dove vorrei essere, il Lontano da qui ed Ora: il più gettonato per adesso pare essere il Messico, probabilmente per quell'idea di libertà e trasgressione letteraria che porta con sé, sicuramente poco vicina alla realtà locale e troppo influenzata dai libri, dai beat, dal cinema; oggi però pensavo che vorrei stare sul postale norvegese, tra il freddo, i fiordi e le casette rosa, a salire piano fino all'aurora boreale, e a provare il "giorno di notte" che non riesco proprio a immaginare.
lunedì 31 agosto 2009
Abunai Tomodachi
...ovvero Amici Pericolosi. Bellissimi, davanti a "una rotonda sul mare", a Senigallia.
Decresco, ricresco, saliscendi, bagni al mare, piscina, Fra e Annalisa che si sono sposati e noi in ritardo a 140 sulla superstrada. E il sole a scioglierci nei vestiti della festa, le poche ore di sonno, le mille e una doccia., il vento e le onde Una pausa: di mille momenti, uno.
sabato 8 agosto 2009
Decrescente
Si inizia sempre parlando del tempo. Non quello che passa (a volte l'italiano è una lingua che stupisce per la sua ingenuità), no, quello fuori, il vento e l'aria che ronzano, coperti dalla musica di chi "I have seen fear, a look of anger on your face", proprio adesso che respiro rabbia, mangio sabbia e mi sento fragile come mai mi sono trovata prima. Non credo che potrei ascoltare nulla di più appropriato. Vorrei parlare ma le parole non escono, urlare, ma la voce si strozza, correr via dal Piano Padano deserto di agosto, proprio ora che mi sento senza piedi, con troppe mete da poter scegliere per trovarne anche solo una che valga l'usura del mio zaino; non so nemmeno perché sto scrivendo, oggi è prosa senza scaletta, la cosa più stupida da fare, me l'hanno insegnato fin dalle elementari che si inizia dal cappello per giungere alle conclusioni, che serve la premeditazione se si vuol dire qualcosa da otto, di intelligente e sensato: bell'alibi per far star zitto il caos della testa, ottima scusa per conformarsi, uniformarsi a quell'otto stabile che mi rifilavano sempre quando non dicevo quello che pensavo, ma gli raccontavo solo quello che volevano sentirsi dire. Eccoci, ancora lì, sempre la stessa storia: tutti uguali. O forse no, ma vien comunque da domandarsi se valga la pena di cercare l'uniformità, di adeguarsi, o la differenza, il riflesso di luce che cambia il senso delle cose, la libertà che affiora tanto raramente e con tanta fatica, che costa forse più di quel che vale.
Non mi metto nemmeno a leggere i post dei mesi passati, so già che questo blog si è trasformato da una raccolta di piccoli frasi liriche e foto di viaggi in un vomito di pensieri raffazzonato che non dice niente, rappresenta con meno intensità di quanto dovrebbe l'infinità decrescente che anch'io sento, e in un giorno qualunque di grazia smetterà di esserci perché anch'io mi ritrovo in caduta libera, e non avrò semplicemente più parole, più niente da provare, nessuna frase da otto e lode per la giuria.
Non mi metto nemmeno a leggere i post dei mesi passati, so già che questo blog si è trasformato da una raccolta di piccoli frasi liriche e foto di viaggi in un vomito di pensieri raffazzonato che non dice niente, rappresenta con meno intensità di quanto dovrebbe l'infinità decrescente che anch'io sento, e in un giorno qualunque di grazia smetterà di esserci perché anch'io mi ritrovo in caduta libera, e non avrò semplicemente più parole, più niente da provare, nessuna frase da otto e lode per la giuria.
sabato 18 luglio 2009
Tutti sognano
Ho rispolverato, per accompagnarlo al libro di cui parlavo precedentemente, un volumetto di citazioni, "Il poeta è un fingitore". Apro a caso, e nasce un mondo, e da questo mondo esce un post fragile, da tanto ci si sente piccoli di fronte al genio.
"I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano". Sono d'accordo anch'io: siamo tutti uguali, diceva insomma Pessoa, tutti volgari proprio nell'intimità profonda della notte, ultima solitudine dell'uomo.
Non vorrei dormire più; fuggo il sonno, dunque, e lo affogo sulla tastiera: si dorme e si muore soli. Davvero. Lo ha scritto Heinrich Böll. E sola (ma sveglia) sono, nella casa vuota e incasinata con le tapparelle chiuse, in un'illusione di frescura serale che tarda come una sposa.
La strada stretta che porta alle colline ruggisce di clacson, frigge sotto la calura bollente di questo sabato onirico che mi lascia addosso il suo odore, l'afa alita sulle mie povere piante che non possono far altro che star lì, statue immobili senza libri né viaggi né musica da rincorrere, e mi metto a pensare al senso delle scelte, dell' inseguire insano, del coprire il proprio corpo nudo che però sempre tale rimane, invece di mostrarlo con divino orgoglio in un amigdala luminescente che dica "ci sono", come gli altri, uguale, uguale a te e uguale a dio, che ti ha creato, se ci credi ancora, sono pianta anch'io, foglia e tronco senza drappi, libero e fermo...all'idiozia del cercare quello che tanto prima o poi ti piove addosso con fantozziana puntualità, proprio quando credevi di stare per seccare: pensieri triti e ritriti, li hanno già tirati fuori proprio tutti, tutti quei "simili" che siamo nella nostra carne, tra le ossa, nella bocca e nel cuore delle nostre radici animali.
Ma il problema è che "simile" e "uguale" sono cose diverse: vorrei che fosse qui, il caro Pessoa, e davanti a un bicchiere di Porto gli spiegherei come la penso; no che non sono uguale a te, a tutti quei voi che contieni, la mia voce non ha la tua grazia involuta che stringe il collo e costringe a pensare, sono solo Simona e a volte scrivo un blando blog, e sogno volgarmente e senza ricordi.
Concludo con un'ultima sua riflessione, che avrei voluto tanto saper scrivere così:
"Niente mi soddisfa, niente mi consola, tutto mi sazia. Non voglio avere un'anima e non voglio abdicare ad essa. Desidero ciò che non desidero e abdico a ciò che non ho. Non posso essere niente e non posso essere tutto: sono il ponte di passagio tra ciò che non ho e ciò che non voglio".
Foto: sinergia di uomini, dei, piante. Scattata in Thailandia, dove tutto è uno (2001 credo)
mercoledì 17 giugno 2009
Da un pozzo
Nuovo corso di formazione appena concluso, con strascichi di belle persone, vento caldo e primi temporali estivi: gocce feroci, pesanti come sassi e stranamente fredde, che mettono qualche brivido e fanno rumore; c'è una nuova piantina di ulivo sul nostro balcone lungo e polveroso, che mi ricorda la Grecia, l'Andalusia, i viaggi dell'adolescenza nell'Europa del sud, quella chiamata alla strada consolidata dai libri di Kerouac, che adesso saranno da qualche parte a Caprile, in una bolla ingenua di passato.
Mi piacciono ancora i beat, anche se non li leggo più (sarà perché ho già letto tutto?), così vicini a quei sogni che mi sono portata nello zaino in tante peregrinazioni, protetti in una sacca simile a una money-belt per nascondere soldi e documenti, attaccati proprio allo stesso modo, alla pancia, e che non ci si toglie nemmeno per dormire e lavarsi... ora leggo di nuovo Saramago, "L'anno della morte di Ricardo Reis", le suggestioni di Pessoa e la prosa incantata di due grandi, l'intima profondità dell'eteronimo preferito di chi si sente poco, nulla, pieno di sogni, inetto di tutto ma profondamente vivo, presente, singolo di "una sola moltitudine" che non risparmia nessuno, a cui tutti devono render conto.
Chissà perché mi vengono in mente queste cose: sospetto che sia, un po' per assurdo, per la sera che arriva, il sapore di birra, il Festival Beat imminente, i caffé-concerto di Broni del mercoledì, le tante facce e i colori tiepidi che mi evocano, insomma, stralci di vita passata che resta ancora così eternamente presente. "Contengo motitudini" nel fondo di quel pozzo che guarda il cielo, in un melange un po' troppo ovvio di citazioni: penso con dolcezza ad Angela, Bob e Vito, che abbiamo incontrato settimana scorsa, e alla statua di Pessoa di Rua Dos Duradores, alla pensione indiana a Lisbona in cui io e Samantha abbiamo dormito, al prossimo viaggio a Lanzarote, all'Asia di tutti gli oggetti del soggiorno di casa, dei ricordi di tanti angoli fatti di me e Marco soli tra la folla, all'sms di Pier che a Venezia cerca un bacaro chiuso da anni...una lista infinita da scrivere che taglio qui, so che annoierebbe a morte chi ancora si prende la briga di leggere.
Foto: io, dopo tanto tempo, e lui, come sempre.
giovedì 14 maggio 2009
Il Mare e il Male
E' strano come a volte si possano sentire i propri pensieri schricchiolare: mi mancano un bel po' di ore di sonno, non so come ma mi ritrovo sempre a far tardi e a dormire poco, e odo chiaramente le sinapsi che si arrugginiscono, settate troppo spesso solo sugli impegni lavorativi. Manca "olio per l'anima", soprattutto adesso che è primavera e tutto si vorrebbe fare tranne alzarsi presto e andare a Milano.
Siamo da poco tornati da Lampedusa, isola che mi ha profondamene sorpresa. Il vento ti soffia addosso tutto il tempo, e ti fa sentire a folate l'odore dell'origano e del sale; le case piatte e rosa ricordano più il Nordafrica che l'Italia, e il mare freddo di aprile, di una trasparenza quasi irreale, lo senti addosso come un guanto leggero ed esfoliante dei residui di quell'operosa noia che inevitabilmente ti si appiccica addosso nel nebbioso inverno di città. Le strade e i loro buchi, percorsi su uno scassato motorino, sono silenziose e spuntano all'improvviso su costoni neri di roccia a picco sul Mediterraneo; ci sono tantissimi animali: gabbiani che ti prendono in giro col loro verso felino, falchi che lottano con le correnti ascensionali nella magia del loro volare in tondo, cani dal muso triste che non sanno nemmeno quanto sono fortunati ad esser nati liberi su un lembo di roccia di dieci chilometri quadrati, tartarughe grandi e timide che però non siamo riusciti a vedere, dato che arrivano solo in giugno sulla spiaggia dei conigli...i conigli purtroppo non c'erano, forse preda di qualche scellerato cacciatore che scaccia la noia col male, in quell'impeto furioso di umanità-belva così spesso protagonista di queste pagine.
Già: il male, la vita che non risponde ai tuoi messaggi, il destino che ti fa nascere in una piccola isola italiana o nel Darfur, e il viaggio per arrivare dall'uno all'altra, inevitabili questi pensieri quando si nomina Lampedusa: questa disperazione non l'ho vista con gli occhi ma l'ho certo intuita nel cuore, nella pancia o in qualunque luogo si reputi il regno delle emozioni. E mi viene da chiedermi se davvero a spaccarmi i polmoni e gli emisferi cerebrali fossero lo scirocco e il maestrale, o solo un alito di consapevolezza colpevole di chi siamo noi, coi nostri ovvi mille euro al mese e la flaccida pelle a buccia d'arancia.
Siamo da poco tornati da Lampedusa, isola che mi ha profondamene sorpresa. Il vento ti soffia addosso tutto il tempo, e ti fa sentire a folate l'odore dell'origano e del sale; le case piatte e rosa ricordano più il Nordafrica che l'Italia, e il mare freddo di aprile, di una trasparenza quasi irreale, lo senti addosso come un guanto leggero ed esfoliante dei residui di quell'operosa noia che inevitabilmente ti si appiccica addosso nel nebbioso inverno di città. Le strade e i loro buchi, percorsi su uno scassato motorino, sono silenziose e spuntano all'improvviso su costoni neri di roccia a picco sul Mediterraneo; ci sono tantissimi animali: gabbiani che ti prendono in giro col loro verso felino, falchi che lottano con le correnti ascensionali nella magia del loro volare in tondo, cani dal muso triste che non sanno nemmeno quanto sono fortunati ad esser nati liberi su un lembo di roccia di dieci chilometri quadrati, tartarughe grandi e timide che però non siamo riusciti a vedere, dato che arrivano solo in giugno sulla spiaggia dei conigli...i conigli purtroppo non c'erano, forse preda di qualche scellerato cacciatore che scaccia la noia col male, in quell'impeto furioso di umanità-belva così spesso protagonista di queste pagine.
Già: il male, la vita che non risponde ai tuoi messaggi, il destino che ti fa nascere in una piccola isola italiana o nel Darfur, e il viaggio per arrivare dall'uno all'altra, inevitabili questi pensieri quando si nomina Lampedusa: questa disperazione non l'ho vista con gli occhi ma l'ho certo intuita nel cuore, nella pancia o in qualunque luogo si reputi il regno delle emozioni. E mi viene da chiedermi se davvero a spaccarmi i polmoni e gli emisferi cerebrali fossero lo scirocco e il maestrale, o solo un alito di consapevolezza colpevole di chi siamo noi, coi nostri ovvi mille euro al mese e la flaccida pelle a buccia d'arancia.
sabato 14 marzo 2009
Springtime
Apro la pagina del blog dopo tanto tempo e vedo la nostra foto nella neve, ancora psicologicamente vicina nonostante il primo abbozzo di primavera, l'aria che si è schiarita dopo tanto freddo intenso; è finalmente sabato mattina e i rumori della casa mi hanno svegliata dopo un lungo sonno "di sasso", una notte in cui mi sono trasformata in pietra e con vaghi ricordi dei sogni fatti: qualcuno tagliava un pomodoro maturo per fare una salsa, era il pomodoro più grande e rosso che avessi mai visto, non so bene cosa stesse succedendo nè dove fossi.
Si è concluso il nostro corso di formazione insegnanti, un'esperienza molto bella sia professionalmente che umanamenete, che però mi ha lasciato stralci di grande stanchezza, forse a causa degli orari un po' pesanti o magari solo per l'impegno e la "responsabilità" che ha buttato addosso a me e al mio collega Claudio; dalla prossima settimana tutto torna alla normalità, anche se passerò qualche giorno a metter a posto carte e cose che necessariamente ho trascurato nelle due settimane precedenti.
Nel frattempo sto organizzando le prossime vacanze, questa volta la destinazione sarà certamente un posto di mare: non è facile decidere, visto che ci siamo ripromessi che almeno in questa puntata vorremmo evitare luoghi poveri, che tanto mi fanno star male e mi ricordano con insistenza il mio far parte di quella scarna percentuale di "nord del mondo" che ha la facoltà di scegliere cosa mangiare a cena, e che abbiamo optato per un po' di sano e cieco relax per farci credere che una vacanza non sia un privilegio...lo so, tanti staranno pernsando "che menate", magari hanno ragione, tanto le cose non cambiano se invece di andare in Marocco te ne vai a Lampedusa o Tenerife, e sicuramente è proprio così.
Questa domenica appuntamneto a Milano coi legionari di Nova: Pamela e Suzuki, Eloisa, James, Stefano e Sayaka.
Guardate questo video meraviglioso che mi commuove nel profondo...
domenica 18 gennaio 2009
2009
Weekend lampo, nevicata record qualche giorno fa, e la pausa più lunga da quando ho iniziato questo blog. Eppure, nonostante tutti questi "primati" mi sembra che tutto scorra con lentezza, complice la nebbia che ovatta tutto e la neve che persiste, si scioglie piano col rumore di rivoli d'acqua gelata che fluiscono nei tombini e di notte ghiacciano, rendendo la strada una lucida e scivolosa lastra di marmo trasparente.
Da ritorno dall'Egitto sono successe tante cose: quelle belle e grandi, come la nascita di Sofia, e quelle piccole, l'esame Ditals, le feste, il rientro al lavoro, la neve che mi ha costretta a tribolazioni varie per arrivare a Milano, la visita di Francesco, Annalisa e Carlo in quel dell'Oltrepò, un bel weekend in montagna a Champoluc con Stefano, Sayaka, Gabu e Kyoko.
Ora sono a casa, impegnata a buttar giù due righe sul blog mentre lancio la pallina al gatto, che la rincorre come un pazzo seza toccarla, limitandosi a guardarla senza capire cosa deve farci, in una domenica che passerò a Caprile davanti alla stufa.
Anche quest'anno navigano nella mente almeno un milione di navi-pensiero, buoni propositi per il 2009, brividi di fronte a quel che vedo per strada, bisogni alterni di fuga e inclusione, noia ed euforia, occhi stanchi la sera e spalancati di orrore e/o stupore di fronte al mondo che arriva dalle finestre, dalla tv, dai giorni, dai sogni.
La foto: Champoluc
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