giovedì 29 ottobre 2009

Il giallo delle foglie e la nebbia mi ricordano che siamo in ottobre, e l'autunno fuori segnala ammanchi di linfa e corrisponde, anche se su piani leggermente sfalsati, a quello dell'anima. Non c'è ghiaccio, ancora, su cui scivolare, solo un'aria densa e frigida a ingobbirmi e a uscir dal naso come un fumo freddo, possente, che sa di città di pianura, di campi, di smog cristallizzato nel bianco sporco e livido che ci rumina intorno.Solo qualche settimana fa camminavo in maglietta per le strade di Barcellona, Cadaques e Girona, determinata a non sentire, persa tra le guglie di un modernismo ribelle e ostentato, nei bassifondi di cui Carlo è stato giuda esperta e accompagnatore instancabile: il rientro, almeno, mi ha regalato un po' di finta e tarda estate, ritardando la fiamma azzurra della caldaia, accesa solo la settimana scorsa ma già a regime, se non altro a far sparire un po' di umidità dalle stanze di casa, ora più vuote, che si impolverano prima di aver tempo di sporcarsi davvero. E poi Lavorare Stanca, secondo Pavese e, a ruota, per tutti: una routine che fa girare la testa nel suo ovvio e ostinato succedersi, ma almeno vanga e smussa un po' la terra dura del momento, questo presente così simile a un aratro sul cemento, che non solca, stride, scalfisce inutilmente l'asfalto isolante che ci pavimenta, corazza e rende solidi, ma sordi, al brulicare che giace sotto.