mercoledì 29 ottobre 2014

Il Tempo Morto


Ci sono i tempi morti. Al plurale. Quelli che si hanno quando si finisce di fare qualcosa e si aspetta di iniziare a fare qualcos'altro. Quel vuoto di pensieri tra una lezione e la successiva, tra una mail e una telefonata, tra la fine della cena e il lavaggio dei piatti.
Ma il tempo morto, quello è altro. E' il ticchettio dell'orologio da muro, sentiamo i secondi ma tutto è fermo. E' il gatto che russa piano mentre lo osserviamo. Lo sciacquone dei vicini. Il telefono muto. Le solite cose al solito posto, come in una foto.
Non è terribile, il tempo morto. Non assomiglia nemmeno alla noia, in cui si cerca qualcosa da fare che non arriva. E' più simile, direi, ai lunghi viaggi in treno per Venezia, sui regionali semivuoti della domenica. I libri in borsa, chiusi, gli occhi che si posano sui finestrini senza realmente guardare quel che passa all'esterno, convinti di conoscerlo ormai troppo bene perché rivesta il benché minimo interesse. Le conversazioni che aleggiano nell'aria e si trasformano in mantra profani e inintellegibili. Il tempo morto, appunto. Quello che non c'è, e che pure è lì a fissarci con il suo sguardo vitreo di cadavere che cammina. Finge di passare, o trascorre e trascende e ci brucia i polmoni con l'aria che respiriamo, ci permea, ci appare in sogno come il fantasma di una nonna. Ci incatena alla sedia come sacchi vuoti.
"O Tempo Morto, é um Bom Lugar", ha scritto qualcuno.

martedì 14 ottobre 2014

Trentanove




Che poi è solo un numero.
Cielo di cristallo oggi, gli aloni grigi che risaltano sui vetri di casa, a separarmi dalle foglie che si muovono e dagli ultimi caparbi insetti che, invece di ronzare, cozzano contro le trasparenze e si chiedono come mai l'aria finisca proprio lì, all'improvviso, senza rassegnarsi.
Interessante, in fondo: capita anche a noi umani di prendere a testate il nulla, o magari di avere la fortuna di schivarlo proprio all'ultimo momento con un fortuito zigzag. O di finire in una pozzanghera che proprio non avevamo visto, nonostante fosse scura e densa e proprio sotto il nostro naso...Penso a Daniza col suo passo lento e il suo ruggito braccato ogni volta che in auto attraverso il Trentino per tornare qui, ho finito lacrime e indignazione e resta solo uno sconcerto sordo che mi rumina dentro, un fragore nello stomaco che ha deciso di restare lì, senza trasformarsi in grido.
Trentanove.
Un numero come tanti. Che però accomuna i volti e le storie che hanno popolato la serata di sabato. Fisionomie familiari, belle da ritrovare e riconoscere al primo sguardo, com'erano sono rimaste. Per una sera si può camminare leggeri, scordarsi le magagne del mondo, il nostro volo in cerchio fino a sbattere la faccia contro un qualche ostacolo invisibile, l'anestetico sovradosato ad arte.