venerdì 25 settembre 2009

Atto Unico


Di nuovo, anche stasera: sola di fronte al computer, troppo asciutta per aver cose nuove da dire, come se avessi già parlato di tutto, in un banale venerdì in cui stanca e livida non riesco a decidermi ad uscire. Dieci anni fa scrivevo questo breve racconto, mi ricordo ancora di me seduta sul regionale per Venezia, con un libro di poesie di Rimbaud su cui ho scarabocchiato queste poche righe, ingenue, adolescenziali, feroci, mie.



Non gli pareva vero. Rappresentare se stesso, un lungo monologo, ciò che non era mai stato…Rappresentare sé diverso da sé, che idea! Che delizia! La monotonia della propria vita grigia e poi, tutt’a un tratto, l’ispirazione! La folla era l’unica salvezza; gli applausi e il delirio di una massa che lo avrebbe apprezzato proprio per ciò che non era: la finzione di emozioni mai provate per incapacità, l’enfasi di sentimenti ignoti per pigrizia. Non aspettava altro.

Che importava se i giorni prima non erano stati altro che una litania notturna d’orrori, e quelli futuri un guscio senz’ostrica, vuoti; quell’attimo solo sarebbe valso a riscattarli, in un unico, grande, glorioso momento di pace: la pace di chi, mentendo, non mira che a mentire, a sé per primo, trasformandosi così nell’essenza stessa della propria verità.
Avrebbe raccontato ad occhi e orecchie attenti ciò che mai aveva visto; li avrebbe commossi, e divertiti; avrebbe gridato, pianto e riso con loro, per loro, senz’altre comparse che la propria ombra nera sul palco inondato di luce.

Già s’immaginava quell’attimo in cui il riflettore lo avrebbe trafitto, in cui lui, opalescente, avrebbe mostrato quel cuore d’un altro che neppur sapeva di avere. Sarebbe stato un individuo, finalmente anche lui con una parte da recitare, come gli altri, come tutti; con qualcosa da dire, storie finte da raccontare: epica di visioni banali o grandiosi nulla scintillanti, poco importava. Che stessero tutti lì, inchiodati sulle sedie attenti ad osservarlo, era questo, sì, che contava! Sarebbe stato davvero un individuo, unico di fronte a quella massa nera d’occhi, a quel multiforme polipo, tumore di cui ora non era altro che cellula integrante.

Sentiva pulsare nelle tempie una voglia quasi ferina. Non era un emozione, ma solo un insondabile istinto: la primaria necessità di esistere che, scontrandosi col vuoto riluce come una cometa, per poi inabissarsi anonima e monocroma senza ricordarsi più di ciò ch’è stata.
L’ispirazione gli affluiva a tratti, una teiera di sakè fumante i cui soli effluvi bastino a produrre ebbrezza e torpore. E lentamente lui la respirava, felice che quel giorno tardasse ad arrivare, pregustando ancora un po’ il momento in cui, dopo una vita sarebbe nato e, forse, stato vivo.

E il tempo, seppur lento, inesorabilmente giunse: ormai si sentiva forte, con passo svelto e la testa alta, lo sguardo fisso avanti a sé, sicuro attraversò la soglia che lo conduceva al palco. Sospinto da una forza maestosa ed unica il sipario cremisi si aprì, senza errori o sbavature.

Lui non voleva, non poteva crederci...


Quel silenzio scrosciò allora più violento di un applauso, prodotto da un' inesistente platea di rosse poltrone vuote. E allora pianse, Solo, Amaro, Nessuno, nel suo teatro immenso d’ombra e di vertigine.

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